Bio

ZIA VERONICA – Le vie dell’arte naïve

Veronica Serra è nata nel 1923 a Zeddiani, il paese in cui ha trascorso tutta la vita e in cui ha maturato la sua singolare esperienza artistica. La sua pittura è spontanea, naïve, perché priva di una formazione di tipo accademico, e trova motivazione in uno slancio interiore che la porta a elaborare un linguaggio artistico originale, con esiti di grande impatto emotivo e inconfondibile valore estetico.

Il mondo che Veronica ci racconta affiora dai ricordi personali legati all’ambiente di origine. Figlia di Ciriaco Serra e Federica Meli, proviene da una famiglia contadina che lavora la terra fertile e generosa del Campidano, da cui tutta la comunità trae i mezzi di sussistenza. In questo contesto rurale, ogni nucleo familiare rappresenta “idealmente” un’unità produttiva e di consumo, ciascuno a seconda dei mezzi e delle proprietà a disposizione. Da una parte il capofamiglia si occupa del lavoro nei campi e del bestiame, dall’altra la moglie attende alle faccende domestiche, alla raccolta e trasformazione dei prodotti “primi” dell’agricoltura e all’organizzazione delle attività all’aperto, nel cortile, con particolare cura per gli animali domestici. Ritratte nell’abito tradizionale, le donne di Zia Veronica hanno le maniche ripiegate perché sono sempre pronte a svolgere qualche piccolo lavoro anche nei momenti di festa e di apparente riposo. Fra le loro mansioni rientrano le relazioni sociali e l’educazione dei figli, i quali, dopo la prima alfabetizzazione scolastica, sono costretti a lasciare gli studi per “aiutare in casa”. Ciò vale in particolar modo per le figlie, perché il ruolo femminile è subalterno rispetto a quello maschile e si esaurisce quasi esclusivamente all’interno dell’ambito familiare e domestico.

Veronica non fa eccezione alla regola e, terminata la quarta elementare, rimane in famiglia, anche perché, avendo perso prematuramente la madre, il suo ruolo diventa fondamentale. Coltiva però la sua passione per l’arte, all’inizio di nascosto: in questi tempi, l’arte non solo è una prerogativa maschile, ma, in un sistema economico che si fonda esclusivamente sull’utilità pratica, è considerata una perdita di tempo, una follia. Malgrado ciò, l’incontenibile creatività prende forma nelle sculture in tufo e in quelle in argilla, che fa essiccare al sole in modo naturale, e in una pittura che rispecchiandosi nell’esuberante semplicità dei papaveri è capace di conquistare al primo sguardo. Alcuni aneddoti che circolano su di lei sono diventati quasi leggendari. Uno di essi racconta che Veronica si esercitava tracciando delle sagome su una mattonella bianca, vicino al fuoco del camino: prima disegnava con il carbone dei tizzoni di legna, poi cancellava per riprendere a disegnare e, infine, per non lasciare tracce. Sin da giovane, dipinge e ridipinge le pareti di una stanza della sua casa: alcune compaesane dicono di aver visto affrescati su una parete Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, altre la rappresentazione del firmamento sul soffitto. Rimane anche il ricordo delle mattonelle bianche del pavimento impreziosite da decorazioni rosse per evadere dal grigiore della vita e da una giovinezza segnata dalle ferite di una guerra recente.   

Quando inizia a dipingere su masonite, la tavolozza è giocata su colori terrosi e sui toni complementari di verde e rosso, stesi a grandi campiture per definire sommariamente, ma in maniera efficace, personaggi e ambientazioni. Le dominanti cromatiche mostrano già con chiarezza l’orientamento delle future scelte tematiche: i colori bruni indicano il legame con la terra e i valori ad essa collegati, il verde è la natura, da cui dipendono le sorti della comunità, mentre le tonalità di rosso esprimono il calore del paesaggio umano e sociale. Sono delle sperimentazioni in cui Zia Veronica imposta, da autodidatta, le proprie regole compositive, ma sono anche le opere più ricercate e rare, che ora conquistano per la loro immediatezza espressiva e, nel passato, meravigliavano e incuriosivano per la loro novità.

Dopo i primi lavori, firmati semplicemente col nome di battesimo, la sigla apposta ai quadri diventa “Zia Veronica”. Incoraggiata da parenti e amici e poi confortata da valutazioni entusiaste di letterati e artisti, da esposizioni e premi artistici, arriva all’affermazione sempre più cosciente della propria libertà espressiva e di una rinnovata identità nel segno dell’arte. Qualcosa è cambiato, lentamente, come riflesso di una rinascita che la investe di modernità, ma lei non perderà mai quell’ingenuità poeticamente naïve né quella purezza d’animo che non conosce il peccato, il male, e quindi non lo può raffigurare.

Della drammatica realtà del Primo Novecento, infatti, Zia Veronica dà un’immagine trasfigurata, “purificata”, perché vengono esclusi quei mali, come la miseria, la sofferenza e la mal’aria, che urlano barbaramente al tramonto di un’epoca. La sua ricerca si rivolge alla rappresentazione degli aspetti rassicuranti del vissuto, dei momenti di felicità o serenità in cui acquistano centralità la cultura e i valori “giusti” della tradizione, che rinsaldano i legami della comunità e ne conformano gli stili di vita. Una ricerca estetica che coincide con quella etica, secondo l’ideale della filosofia greca che arriva nella tradizione culturale sarda attraverso il cristianesimo e unisce il concetto di bellezza a quello di bontà, giustizia e virtù.

Seduta di fronte al tavolo della cucina, Zia Veronica si immerge, giorno dopo giorno, nel rituale della pittura, lavorando contemporaneamente a più tele, per permettere alla pittura ad olio di asciugare in un’opera mentre lavora alle altre. Avvolti nel costume tradizionale della memoria, i personaggi vengono calati in un tessuto pittorico che freme di luce e colore: Zia Veronica lavora appassionatamente alla resa dei particolari della natura e delle vesti femminili, con i preziosi ricami de s’imbustu e i muncadoris che imitano i motivi floreali del paesaggio. Nelle ambientazioni chiuse gli strumenti di lavoro sono appesi in bella mostra alle pareti e pronti all’uso: ogni elemento compositivo rappresenta un’evocazione simbolica di una civiltà contadina che rivive nella gestualità millenaria dei personaggi intenti nel lavoro, siano essi contadini, artigiani, spigolatrici o massaie. In cucina, o in s’omu ’e su forru, sotto il cielo geometrico de s’orriu, ciascun attrezzo è funzionale alle diverse attività più o meno frequenti, come la panificazione o la frittura delle zippole. C’è sempre qualcosa che cuoce simbolicamente ai fornelli e si avverte una calda intimità quando, dopo il tramonto, la famiglia si riunisce intorno al fuoco del camino, per riposare e organizzare la successiva giornata di lavoro. Con pochi altri elementi, tra cui la credenza pensile, alcuni scannigheddus e la cassapanca, si descrive l’arredamento minimale di una casa d’altri tempi, in cui non mancano stuoie e cestini né la zucca sul tavolo, riempita di vernaccia da portare in campagna.

Spesso Zia Veronica ripete dei modelli tematici, variati nei colori e nella composizione degli elementi, come ad esempio la raccolta delle olive, il matrimonio e il tramonto sul Rio Mar’e Foghe, oppure introduce delle varianti di fantasia, come nelle lavandaie: qui il ponticello tra Zeddiani e San Vero Milis appare in legno o in pietra, con uno o due archi, mentre è solitamente presente il salice piangente che, pur sembrando un elemento d’invenzione, è reale. Solo a un occhio attento si mostrano anche alcuni particolari che suggeriscono l’arrivo della modernità e il ricambio generazionale, come nel caso dei “palloncini” attaccati a su statzu, durante una festa paesana contestualizzata nel passato, o del fisarmonicista che subentra a volte al suonatore di launeddas, al centro della piazza, e, ripetendo le antiche armonie, infonde un nuovo spirito alla comunità.

La “replicazione” è una cifra stilistica di Zia Veronica, dovuta anche alle commissioni di opere su determinati temi e soggetti, un aspetto importante della sua vita perché proprio la reciprocità dei rapporti tra lei e la comunità permette di conservare intatta la memoria di una storia comune. Perciò, nella sua arte si ritrovano quei ritmi “circolari” propri della tradizione orale che, con formule ripetitive, veicolava miti e leggende ma anche conoscenze e saperi pratici di vitale importanza. Ripetere per conoscere, ricordare e, infine, per tramandare ai posteri, secondo un processo che si rinnova impercettibilmente a ogni ciclo, da una generazione all’altra.

Anche la natura è ciclica e, rinnovandosi con l’alternarsi delle stagioni, segna il tempo delle attività umane e dà forma all’economia circolare della civiltà contadina, in un sistema che si autorigenera come l’arte di Zia Veronica, che ci racconta per immagini “il ciclo del pane”, dalla semina alla raccolta del grano, dalla molitura con l’asino alla cottura in forno, o il “ciclo del vino” e l’antica pigiatura con i piedi, in cantina, tra il calore dei muri in ladrini e il soffitto intrecciato a canne. Nel suo mondo, uomini e donne collaborano fra loro e in armonia con una natura “viva e pensante” che ne premia la fatica con l’abbondanza del raccolto: cumuli di grano, sacchi di olive, siepi trapuntate di fichi d’India e tini straripanti di uva nera e vernaccia.

Tutto nell’arte di Zia Veronica partecipa di quel respiro vitale che ritorna continuamente dal presente al passato, dalla terra al cielo, dalla sacralità ancestrale allo spirito cristiano attraverso le vie dell’arte naïve che sono fatte di emozioni, di incontri e di strade realmente percorse per quasi un secolo. Un viaggio rituale che trova la sua sintesi nel giorno di festa, di mattina nella Processione, che, partendo dalla Chiesetta, inizia da Dio e a lui ritorna, e di sera nella danza “a circolo” della tradizione sarda.

Su ballu tundu è un tema caro a Zia Veronica, che appare anche nelle rare testimonianze fotografiche delle pitture murali della sua casa (1969). In questo ballo di origine arcaica ritroviamo i simboli dell’unione armonica fra gli individui che, tenendosi per mano, fondano i loro rapporti sul rispetto e sulla solidarietà, i valori fondamentali di un mondo agro-pastorale con cui si tenta di mitigare gli squilibri della disparità economico-sociale. Sono anche i valori sacri di una fede che Zia Veronica conserva in seno alla propria famiglia e si traducono, all’esterno, nella generosità di donare se stessa attraverso le sue creazioni e nell’augurio di felicità e abbondanza rivolto a tutta la “sua” comunità che, ancora adesso, la chiama affettuosamente, ma con antico rispetto, “Zia”.

Flaminia Fanari - Curatrice Artistica